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Ferdinando Avanzoni

A Ferdinando Avanzoni, per tutti Nando, 85 anni ben portati, quando entra dal portone di via San Giovanni gli si illumina il viso. Già, perché Nando entrando nella sua “seconda casa” si sente in famiglia, ed infatti, tutti lo conoscono e lo salutano, non solo i volontari che lui ha cresciuto e istruito a suo tempo, ma anche quelli più giovani, che non hanno mai avuto l’occasione di operare con lui, ma ne riconoscono il ruolo storico, trasmesso oralmente da una generazione all’altra. È però arrivato il momento di mettere per scritto alcuni dei suoi ricordi, affinché la memoria non vada perduta e resti come esempio dei valori fondanti della nostra Associazione, anche per chi verrà in futuro.

 

L’intervista testuale

 

Nando, puoi raccontarci come hai iniziato a frequentare la SVS?
“Mio padre era un volontario dell’Assistenza e iscrisse tutti i suoi sei figli all’associazione. A me toccò nel 1945, quando avevo appena 12 anni e la sede era in via Michon, perché quella di via San Giovanni era stata bombardata durante la guerra e doveva essere ristrutturata. Fu nel 1947 che rientrammo nello storico palazzo”.

Ma cosa ci faceva un bambino all’assistenza?
“A quel tempo ce n’erano tanti di bambini e il caposquadra Sergio Martini ci metteva la divisa e ci portava in giro per la città a rappresentare la SVS. A 16 anni ho cominciato a salire sull’ambulanza”.

E da allora non hai più smesso…
“Non ho più smesso, fino al raggiungimento del limite di età. Nel ’59 feci il corso per infermiere organizzato dall’Assistenza, che al tempo durava 8 mesi con un esame finale impegnativo, perché c’erano ben 5 medici a interrogarci. Era un titolo che valeva per lavorare anche in ospedale, ma io di professione facevo il portuale e lo utilizzai per fare volontariato sulle ambulanze. Sono stato anche autista volontario per 35 anni; ho ricoperto il ruolo di consigliere per tre mandati, l’ultimo fu con il presidente Vincenzo Pastore; ho operato all’interno dell’Ufficio Comando diventandone comandante; poi sono stato presidente del Comitato Soci, che al tempo aveva il compito di raccogliere fondi organizzando feste aperte a tutti, come ad esempio il cenone e il ballo dell’ultimo dell’anno, alle quali partecipava anche mia moglie come cuoca volontaria. Ho fondato, inoltre, insieme a Rinaldi le Onoranze Funebri: un settore che è sempre stato di competenza della SVS, in quanto il dare dignità anche ai defunti appartenenti a famiglie indigenti è sempre stato uno dei nostri valori fondanti, ma al tempo decidemmo di strutturare il servizio come impresa per andare incontro a tutti i cittadini con costi più contenuti, del resto era un’esigenza molto sentita, in tanti ce lo chiedevano, così come il servizio di prestito degli ausili, che fu organizzato perché in tanti avevano necessità di una stampella, un deambulatore o altro per un breve periodo. Così affittammo il fondo all’angolo di via San Giovanni, dove oggi c’è un bar, ed iniziammo ad organizzare il servizio aiutando tante persone in difficoltà. Di cose ne ho fatte talmente tante che ricordarle tutte non è facile”.

Come conciliavi lavoro e volontariato?
“Come lasciavo il porto correvo in via San Giovanni, il più delle volte sacrificando la famiglia, ma sentivo che aiutare gli altri era importante. Vi sono stati periodi di emergenza in cui avevo il distaccamento dal lavoro, ad esempio, quando alla fine degli anni ’50 arrivò l’influenza asiatica a Livorno e i 4 autisti si ammalarono con conseguente ricovero in ospedale, la SVS si trovò in sofferenza, così l’allora presidente andò da Italo Piccini, presidente della Compagnia Portuali, per chiedere di concedermi il distacco all’Assistenza. E così in quel periodo dalle 8 del mattino fino alle 8 di sera restavo in servizio alla guida delle ambulanze, non andavo a casa neanche a mangiare, non c’era il tempo, era mia moglie che mi portava qualcosa in via San Giovanni”.

Quali sono le esperienze che più ti hanno colpito?
“Di cose terribili ne ho vissute tante, fra queste ci sono sicuramente i terremoti. Ho sempre prestato la mia opera in queste tristi occasioni a partire da quello del Friuli, poi in Irpinia, ai quali vanno aggiunte l’alluvione di Firenze, il disastro di Genova, quando una parte di montagna franò nel Bisagno, insomma sono sempre stato presente. Molto tristi sono anche le morti sul lavoro o le persone che decidono di togliersi la vita”.

Come si riesce a sopportare tutto questo?
“Non lo so. Io ne rimanevo sempre colpito e continuavo a pensarci per giorni, condividendo in famiglia le mie esperienze. Ma comunque la cosa più importante era aiutare gli altri. Quando ci fu il terremoto del Friuli mia moglie e mia figlia erano malate, ma io spiegai loro che c’era chi aveva bisogno di aiuto più di loro e partii con l’Assistenza”.

Cosa puoi raccontarci della “leggenda” sui turbolenti rapporti del tempo fra Pubblica Assistenza e Misericordia?
“Non è una leggenda, ma storia. Al tempo c’era molta rivalità fra noi e non è un segreto che qualche volta si arrivasse alle mani per aggiudicarsi il servizio, ed io devo confessare di aver partecipato attivamente a queste diatribe, ma a quel tempo le cose andavano così”.

Devi però anche confessare che la Misericordia ti ha fatto incontrare l’amore…
“No! È stata l’Assistenza a farmi conoscere mia moglie. Un giorno stavo passeggiando con un amico in via Cairoli quando ci fu un incidente ed io chiamai subito la SVS, ma in quello stesso momento due ragazze delle Misericordia stavano passando da lì e chiamarono la loro associazione, così iniziammo a litigare. Il giorno dopo la incontrati ancora e così i giorni seguenti e alla fine ci sposammo, ma lei naturalmente dovette lasciare la Misericordia ed iscriversi alla SVS”.

Cosa ti ha insegnato l’Assistenza?
“Ad essere generoso, a voler bene agli altri e ad aiutarli”.
Se tu potessi tornare indietro rifaresti tutto?
“Sì certo, anzi vorrei cercare il modo per fare ancora di più, vorrei avere più braccia, perché i bisogni delle persone sono sempre tanti”.

Come istruivi i giovani che si presentavano in associazione per diventare volontari?
“Inizialmente raccontavo loro i servizi che svolgevamo, le problematiche da affrontare, le difficoltà di trovare fondi. Successivamente iniziavano ad uscire con i più esperti e venivano, a mano a mano, istruiti al meglio”.

Che tipo di amicizia nasceva fra i volontari?
“Ci volevamo bene come fratelli, io ad esempio ero molto legato a Ezio Suich con il quale organizzavamo feste e gite con le nostre famiglie, occasioni in cui i nostri figli potevano giocare insieme”.

Cosa ti piacerebbe che l’Assistenza conservasse negli anni, senza mai perdere?
“Mi sono sempre detto che se c’era qualcuno che aveva bisogno di aiuto e io potevo aiutarlo, dovevo farlo. Vorrei che la SVS mantenesse sempre questa filosofia, che è il vero spirito del volontariato”.

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