Corsi per volontari
Home / FULVIO PACITTO

FULVIO PACITTO

 

INTERVISTA TESTUALE

Fulvio Pacitto è indubbiamente un personaggio pubblico, molto conosciuto nella nostra città, per il suo grande amore per il vernacolo, espresso attraverso spettacoli, romanze e anche tante storielle e barzellette che hanno fatto ridere generazioni di livornesi. Ma Fulvio è anche famoso per le sue mani che diventano “d’oro”, quando si avvicina alle barche in legno: una professione, quella di Maestro d’Ascia, che è sempre stata una passione. Fulvio di passioni però ne ha anche altre e fra queste vi è proprio la SVS Pubblica Assistenza, dove per tanti anni ha svolto servizio come volontario o come dice lui “ci sono cresciuto, sentendomi in famiglia”. Così, insieme a lui, torniamo indietro nel tempo, per ascoltarne il suo racconto.

“Da piccolo ero molto legato a mio nonno Ferdinando Carboni, vecchio capo-squadra della SVS, che prestò servizio anche nell’epidemia colerica del 1911, ed ancora oggi lo si può vedere nella foto pubblicata sul libro storico dell’associazione, accanto al carro a mano, che faceva da lettiga: lui è in primo piano e la nostra somiglianza è sorprendente. Al tempo ero affascinato dai suoi racconti, così l’11 marzo del 1965, all’età di 16 anni, feci domanda per entrare a far parte di questa meravigliosa famiglia”.

A quali tipi di servizi ti sei dedicato?

“Per i primi due anni fui socio allievo e mi occupai dei servizi ordinari, perché ancora non potevo fare le urgenze. Successivamente diventai socio assistente e cominciai a salire sulle ambulanze ed  entrai a far parte della squadra n°14 insieme a tanti amici come: Bruno Pucci, Aldo Morucci ed altri, che purtroppo non ci sono più come Duilio Cenai, Piero Lunardi. Per 31 anni sono stato nella squadra facendo il servizio notturno volontario: inizialmente facevamo una notte ogni 40 giorni, poi fu portata a 32 giorni. Ho continuato fino a quando il lavoro e l’età me lo hanno permesso”.

Parlaci delle iniziative che ricordi meglio.

“Sono tante, ad esempio ho fatto parte del Comitato ammissione soci con persone veramente squisite, ricordo Alberto Polese, Roberto Lepori, Ottorino Lunardi, Leonetto Malloggi. In passato le domande di ammissione dei nuovi soci venivano analizzate dal comitato per verificare che non vi fossero incompatibilità con i principi dell’Assistenza. Ho poi fatto parte del Consiglio di disciplina, sono stato autista volontario e ho partecipato alla raccolta fondi che facevamo al tempo, per poter acquistare la prima ambulanza dotata di rianimazione, la numero 238. In occasione dell’inaugurazione venne perfino Bandini, il presidente nazionale delle Pubbliche Assistenze; per il tempo era un evento importante, non erano tante le ambulanze di quel tipo in Italia. Ho fatto tanti spettacoli di beneficenza e posso dire con orgoglio di aver ricevuto 18 medaglie d’oro per il mio operato”.

A quale di queste 18 medaglie sei più affezionato?

“A quella consegnatami dall’allora presidente Alberto Mario Tevené per atto di valore. Ero in servizio con l’autista Luigi Mazzanti e ci chiamarono, perché una signora era caduta nei fossi e stava affogando. Arrivammo sul posto ed io non esitai a togliermi la cappa bianca, il berretto e il portafogli, a consegnarli all’autista ed a tuffarmi in acqua. Mi ricordo che fui quasi impressionato quando piantai i piedi sul fondo per darmi una spinta e sollevare la donna, ma il fango mi faceva da ventosa, comunque riuscii a staccarmi e ad agguantarmi al parapetto di una barca portando con me la donna e salvandola dall’annegamento. Un’altra medaglia d’oro la ebbi per la vendita dei calendari: un’idea di Ezio Suich, che fu una vera impresa per il numero che riuscimmo a distribuire. Ogni sera partivamo dalla sede per andare nei quartieri, casa per casa, ad offrirli in cambio di un’offerta. Quando mancavano dieci giorni a natale, Ezio ne fece stampare altri 2.000 e noi riuscimmo a distribuire anche quelli. Sempre per raccogliere fondi, con il Comitato Soci organizzavamo le feste e inventammo la giornata della Pubblica Assistenza, durante la quale andavamo per i rioni suonando la sirena e le persone, che il giorno prima erano state avvisate di non spaventarsi per il suono delle ambulanze, ci gettavano i soldi dalle finestre. Facevamo delle buone raccolte. Ricordo anche lo stand che facemmo per molti anni alla festa dell’Unità alla Rotonda d’Ardenza, con una specie di lotteria legata ad una ruota per l’estrazione dei numero, che costruimmo noi, dove si metteva in premio olio, vino ed altro. Per attirare le persone io mi sistemavo accanto alla ruota e raccontavo le barzellette, l’iniziativa ebbe molto successo e provocò qualche bocca storta dai vicini di stand che si sentivano messi in ombra”.

Preferivi dedicarti al servizio notturno?
“Ho avuto anche una medaglia d’ora per le tante sostituzioni fatte di notte. Il fatto è che mia madre morì per una disgrazia quando aveva 36 anni e mio padre era spesso fuori per lavoro, così io da giovane ero solo e quando Emilio Finocchietti, il custode di notte della Pubblica Assistenza, mi telefonava per chiedermi se potevo sostituire qualcuno, io non dicevo mai no, alla SVS mi sentivo in famiglia. Un anno feci ben 187 sostituzioni notturne”.

L’esperienza che più ti ha impressionato come volontario?

“Quando in via delle Sorgenti un camion che portava acqua minerale strusciò un ragazzino in bicicletta, la fatalità volle che la cartella si incastrasse fra la ruota e la catena della bici e lui non riusci a sterzare in tempo, cascò dalla parte del camion e fu investito. La cosa che più mi impressionò, oltre al corpo straziato, fu che andarono a prendere il padre e per errore lo fecero passare proprio dal luogo dell’incidente, e vide suo figlio morto. Questo forse è l’episodio più brutto che ricordo, anche se di servizi difficili, da questo punto di vista, ne abbiamo fatti tanti”.

L’esperienza più bella?

“Quando riuscimmo a salvare un ragazzo di 17 anni che aveva avuto un arresto cardiaco a Montenero. Lo rianimammo, cosa non semplice al tempo, perché potevamo solo far il massaggio cardiaco, non avevamo la strumentazione di oggi, avvisammo l’ospedale della gravità del caso, che si tenne pronto al nostro arrivo e fortunatamente andò tutto bene e si salvò. Ma ricordo anche quando venne di notte il padre di una bambina di tre mesi con la polmonite, che aveva bisogno di fare iniezioni quotidiane e lui non ne era capace. Noi militi non potevamo fare queste cose, se non dietro permessi speciali, che io non avevo, ma non me la senti di abbandonare a se stessa la neonata, con la febbre a più di 39 e così andai con il padre. Per 4 sere, a mezzanotte, andavo dalla famiglia, mettevo la bambina sulle gambe, il padre la reggeva e io le facevo l’iniezione. Una cosa che feci volentieri, sapendo bene che non avrei potuto: ho rischiato, ma non potevo fare diversamente. In corpo di guardia vennero poi a sapere della cosa, ma fecero finta di niente”.

Altri piacevoli ricordi, non legati all’urgenza e all’emergenza?

“In rappresentanza della SVS ho partecipato a numerosi convegni delle Pubbliche Assistenze, ma quello che ricordo con più soddisfazione è quello di Pisa del 1972. Al tempo avevamo una sezione nautica con una barca a remi attrezzata con la barella, ma io pensai di adattare una mia barca a motore, sulla quale mettemmo perfino la sirena e naturalmente la lettiga e le altre attrezzature. Arrivammo con questo nuovo mezzo alla foce dell’Arno, lo risalimmo fino a San Paolo a Ripa d’Arno, dove c’era la manifestazione delle Pubbliche Assistenze e vincemmo il primo premio, fra lo stupore dei presenti, che non avevano mai visto niente di simile”.

Cosa ti ha insegnato la SVS?

“Qui ho trovato una famiglia, ho conosciuto amici veri ed ho imparato tante belle cose, ho appreso a stare con la gente, a dialogare: è stata una scuola di vita. Quando passo davanti alla sede di via San Giovanni sento una forza, come una calamita, che mi spinge ad entrare, per tornare a vedere i locali, per parlare con i volontari, anche se sono giovani e non mi conoscono. Per età non faccio più servizio attivo, ma sono rimasto legato alla SVS con il cuore”.

Come si possono avvicinare i giovani di oggi al volontariato?

“Prima era più facile, i divertimenti erano limitati e c’erano meno possibilità economiche. Ci trovavamo all’Assistenza e poi facevamo una giratina in città, per ritornare sempre in sede, e così passavamo la giornata divertendoci insieme. Organizzavamo le feste nel salone, nel periodo del carnevale, per la festa della donna, per l’ultimo dell’anno e questo era un modo per attirare diversi ragazzi che poi diventavano soci e volontari. Oggi i giovani non si accontenterebbero di questo, oggi per fare il volontario ci vuole una spinta interiore molto forte. Io posso garantire che aiutare gli altri è una delle cose più belle, una sensazione che tutti dovrebbero provare, per capire quanto sia importante e meraviglioso”.

Fra i volontari si sviluppava un forte legame di amicizia fortificato dal fatto che vi vedevate spesso o per il tipo di servizio svolto?

“Credo che sia per il tipo di servizio svolto, perché i volontari ne vedono di tutti i colori, e alcune esperienze ti uniscono. Ricordo, ad esempio, quando con Corrado Arbulla, al tempo della spagnola, facevamo insieme i tanti servizi che ci richiedevano, proprio nel periodo in cui i 4 autisti si erano ammalati anche loro ed erano stati ricoverati in ospedale. Una sera facemmo 11 servizi e quando stavamo per smontare, stanchissimi, ci chiamarono per un caso grave a Castel Nuovo della Misericordia, e noi non ce lo facemmo ripetere due volte e andammo”.

Un messaggio per i giovani?

“Lasciate perdere le cose brutte della vita, quelle che non servono a niente, i divertimenti strani e pericolosi. Venite all’assistenza, un ambiente semplice, leale, sincero e negli anni che verranno potrete dire ad alta voce: ho salvato delle vite”.